Due anni fa, nel 2007, alla morte di mia madre, Rosaria Greco, siciliana di Siracusa, controllando la casa di mio padre, ho trovato in un armadio custodita una piccola valigia di cartone marrone, che ho immediatamente riconosciuta come di mio padre, Angiolo Tista Martorella, nato tardivamente il 2 luglio 1925 a Poggio, nel Comune di Marciana, che spesso mi diceva che era il suo unico bene emigrare in Argentina nel 1949. E io dico che era stata una nascita con ritardo perché, o mio nonno Aristide (che ha dovuto lavorare in Etiopia durante il mandato di Duce) ha profetizzato di riconoscere un altro figlio maschio; o il proprietario del bar, responsabile dei registri delle persone, non aveva un calendario attualizzato, e così è stata registrata il 1° luglio la nascita di mio padre. Ed è stata proprio con questa valigetta di cartone marrone, foderata internamente con carta modellata in verde e bianco, che mio padre ha lasciato l’Elba, per andare in Continente, a Piombino, e da lì in treno fino a Genova dove si imbarcó sulla nave per l'America. È con questa valigia marrone, dove portava i suoi pochi averi personali, in quella barca che, dopo essere partito il 6 dicembre 1949, ha viaggiato 24 giorni, navigando l'Oceano Atlantico, passando la mitica Gibilterra e le isole Canarie e il suo famoso Porto di Tenerife. Oggi, la stessa valigia si trova nella soffitta della mia casa marplatense, e mantiene vivi i ricordi invisibili di gioventù del mio padre e gli addii, uno dei veri tesori ereditati che non posso lasciare andare. All’apertura, dopo tanto tempo, di quella valigia vuota, sbirciarono lacrime di commozione e di tristezza nei miei occhi, all’immaginare l'incertezza combinata con la speranza che aveva portato nelle sue mani callose da scalpellino mio padre; le mani che sicuramente tremavano nel salire sul traghetto dopo l’abbraccio di addio ai suoi genitori, lasciando dietro di sé il suono del campanile del Paese. Immagino mio padre con il suo abito scuro domenicale, camicia bianca e cravatta, contemplando, dalla finestra dello scompartimento del treno, le campagne italiane al confine con la costa tirrenica; campagna appena ripresasi dalla devastazione della selvaggia seconda guerra mondiale; il medesimo paesaggio che sembrava di vedere per la prima e l’ultima volta. Solo ora, nella mia maturità, riesco a capire i motivi delle sue paure di tornare alla sua isola natale, quando mio padre diceva: "perché tornare se più tardi devo dire addio di nuovo?". Quanta sofferenza provoca lo sradicamento dopo tanta paura di morire in un istante dal peso di una bomba lanciata dai nemici!!, che alla fine della guerra, paradossalmente, sono apparsi come salvatori alleati! Certo, che questa valigia bastava per portare il necessario per fuggire dalla fame e molte altre miserie, con la retina impregnata delle splendide montagne dell’isola d'Elba nell'Arcipelago toscano inzuppate nel Tirreno; le montagne, dove, durante la sua infanzia e gioventù, portava a mangiare le capre familiari per la loro manutenzione con il formaggio e le ricotte; montagne scavate per estrarre il suo ferro diventato il materiale bellico nazista, e miniere in cui mio padre lavorava di notte come sostituto del mio nonno Aristide, dopo aver fatto percorsi in bicicletta nelle pianure; miniere in cui mio padre, battendo il suo sogno, aveva lo scopo di impedire l'acqua delle inondazioni consentendo il motore di scarico. Quante volte, in quel viaggio per sfuggire all'orrore, saranno stati appannati gli occhi di mio padre, e le loro retine avranno salvate le immagini offuscate del paesaggio toscano?!! Quante volte mio padre avrá imprecato in quel viaggio ogni volta che la nave dondolava per la forza brutale delle onde durante le tempeste?!! Quante volte ho visto mio padre disperato per i forti uragani, nella mia infanzia e gioventù, temendo che avrebbero causato danni al tetto della nostra casa! Oggi so che il vento probabilmente sarebbe simile al suono di bombardieri nemici che volavano sopra il suo paese, San Piero, durante le interruzioni di linea per diventare invisibile nel buio della notte. Oggi so che il vento sicuramente rievocasse il fragore delle onde che attraversavano da babordo a tribordo mentre la nave scuoteva, sul cui ponte, mio padre camminava, a 24 anni, con un altro giovane per sfidare la forza furiosa del mare. Così sono cresciuta con le storie della vita tranquilla isolana in alternanza con i fantasmi della guerra atroce che mio padre mi ha insegnato a odiare. Una guerra di tessere di 100 grammi di pane a persona, con poco olio, e la carenza di altri elementi essenziali per sopravvivere. E così arrivò, nell'ultima tappa del suo viaggio, la valigia di cartone marrone a Montevideo, dove, come un postino, mio padre, ha consegnato lettere senza francobollo a una famiglia di compatrioti emigrati in precedenza. Infine, il 30 dicembre, mio padre è arrivato con la sua valigia al porto di Buenos Aires, con 5 lire in tasca e un abbraccio pronto per il suo zio Tista (Giovanni Battista Martorella) che era emigrato dall'Isola nel 1913 con la moglie Vittoria e i loro primi 3 figli, Lida compresa che è
stata la mia amata e ammirata madrina.
Mio padre ha vissuto otto mesi nella casa di suo zio Tista alla Boca, grato fino all'ultimo giorno della sua vita per il cibo e l'attenzione profusa della sua cugina Lida che, pur essendo una madre di tre figli, lo ha aiutato nell'igiene dei suoi vestiti e della sua stanza. Otto mesi mio padre ha lavorato nella fabbrica tessile Alpargatas, il posto di lavoro che il suo zio Tista era riuscito a trovargli; lavoro con il quale avrebbe potuto risparmiare abbastanza per affittare una casa a Avellaneda per il mio nonno Aristide e la mia nonna Maria (Filomena Montauti, discendente della Contea di Montauto, vicino ad Arezzo); risparmi realizzati anche per un vestito nuovo per mio zio Benito, il fratello più giovane di mio padre. Otto mesi mio padre ha lavorato all’Alpargatas fino a quando sono arrivati i suoi genitori e il fratello in Argentina, e poi ha deciso di tornare al suo mestiere di scalpellino operando in marmo per un’importante ditta come la Campolonghi a Buenos Aires; per poi tentare la fortuna nelle cave di Mar del Plata nel 1952, proprio l'anno in cui mia madre, che ha vissuto in questa città, andava a vivere con la sua famiglia a Avellaneda, dove finalmente, il 16 luglio 1955, si sono conosciuti grazie alle lunghe code al panificio a comprare il pane che allora scarseggiava in Argentina. Ma non si sono trovati lì al forno, ma grazie alla cognata di mio padre, Mirella, e a una cugina di mia madre, Carmelina: sensale incorreggibile di matrimoni che hanno segnato il destino di questi due giovani isolani del Tirreno, che in quei tempi erano cittadini immigrati a Avellaneda. Un anno e mezzo più tardi questi due isolani hanno celebrato il loro matrimonio nella chiesa di San Giovanni Evangelista nella Boca, il 1 dicembre 1956 e mio padre si stabilì in una casa umile, ma ordinata, a Florencio Varela, abitazione che, durante tutta la sua vita, ha costruito e abbellito con i doni naturali di marmo e granito, materiali con cui ha sviluppato il suo mestiere, ricordando la forza delle costruzioni della sua terra e pure le tradizioni come i presepi ...Anche mio zio Benito si è sposato in queste terre americane, ma "per potere" con Mirella Galli, che, insieme con i suoi due figli Argentini, Cristina e Claudio, tornò a l'Isola d'Elba nel marzo 1963, mesi prima della morte improvvisa di mio nonno Aristide, il 4 ottobre. La morte ha deciso la mia dolce nonna Maria di tornare in Italia, dove l’aspettavano altri 5 figli: Tista, Umbertino Pasqualino, Gina e Benito, insieme ai suoi altri 10 nipoti. Per questo motivo, mio padre, che non ha avuto il coraggio di seguire il sentiero marino che Benito e sua madre hanno lasciato alle spalle, è rimasto in Argentina come l'unico rappresentante della sua famiglia, con me, sua unica figlia, come il suo seme, come il ponte che mi ha insegnato a impostare tramite penna e inchiostro: la parola, in primo luogo, nei "Saluti e Baci" in lettere che hanno impiegato mesi per raggiungere la loro destinazione in Italia; ora nei racconti di tantissime storie commoventi di coloro che hanno osato affrontare le avversità e ci hanno trasmesso il loro modo ottimista e la cultura dello sforzo. Solo una volta mio padre è stato incoraggiato a tornare alla sua Isola nel 1991, l’isola dell'esilio di Napoleone, a riscoprirla vivace e piena di gioia, con limitati vigneti coltivati, favorita dai turisti internazionali, affascinato dalle sue bellezze naturali; per scoprire il passaggio del tempo nei suoi fratelli, nei suoi nipoti e nei suoi coetanei; per scoprire che era vivo nella memoria di coloro che ancora sentivano la sua mancanza, che gli volevano bene...
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